Tra le righe di Stefano Marotta e Roberto Russo
Stefano Coletto
Negli ultimi anni l’espressione “arte digitale” è stata ampiamente utilizzata, con uno spirito forse che esprimeva un’eccessiva fiducia nel rinnovamento non solo dell’espressione artistica, ma anche della società e della cultura nel suo insieme. Si è detto che “il digitale” è una rivoluzione cognitiva, ma anche un modo innovativo di produrre e di fruire del prodotto culturale e, radicalizzando maggiormente, un modo nuovo di “essere”.
Arte e arte digitale. Chiariamo subito: l'arte è arte (se riesce ad esserlo), punto e basta.*
Marotta & Russo puntualizzano subito la questione in un loro testo introduttivo,
con una affermazione che probabilmente sarebbe condivisa da quasi tutti gli artisti cresciuti con gli strumenti dell’informatica che aspirano ad essere artisti: l’arte è arte.
Tuttavia ci servono le definizioni per spiegare i cambiamenti tecnico-stilistici; le categorie e i neologismi servono in quanto aiutano storici e critici nella divulgazione, possono chiarire dei passaggi, introdurre dei concetti, facilitare la discussione intorno agli artisti e alle loro concezioni del mondo.
Per questo esistono espressioni come “arte tecnologica” e “arte digitale”, con sottoinsiemi come “arte elettronica”, “arte robotica”, “arte generativa”, o “arte dei nuovi media”; tutto questo introduce sicuramente una tendenza tassonomica che rischia di essere noiosa e limitante, ma indubbiamente anche molto utile.
Parlare di “arte digitale” suggerisce immediatamente agli operatori non specializzati, cioè a quelle persone che sebbene utilizzino il computer quotidianamente conoscendo la definizione di hardware e software, non sanno riparare il computer, non “aprono la scatola” oppure non programmano, che esistono espressioni artistiche che utilizzano il computer e i programmi che istruiscono il computer per le sue funzioni.
La digitalità pervade il nostro ambiente, potenzia e muta la portata e la natura dei nostri sensi, crea nuovi scenari mentali e linguaggi. Dove risiede la "virtualità" in tutto ciò? Il digitale trasforma ed estende la nostra realtà percepita
Ci si deve comunque chiedere dove inizi l’interessante nell’esplorazione del mondo digitale, perché nel contesto dell’arte contemporanea troppe opere spesso si dimostrano tecnicamente innovative ma già superate e sterili a livello di immaginario proposto e di metafore evocate.
Da un punto di vista tecnico anche questo testo si va componendo utilizzando il classico software word processor, ma sicuramente non può essere considerato un lavoro artistico-letterario digitale; la grammatica e il vocabolario forse non risentono dell’avvento del digitale; la sintassi nasce da ampi lavori di “copia” e “incolla”, da continui movimenti di un cursore; l’obiettivo per cui questo testo è scritto risente probabilmente dell’avvento del digitale; il significato è legato all’intenzione di confrontarsi con l’ambiguità del termine “arte digitale”; la facilità di modificarlo e di correggerlo produce nello scrittore la sensazione che il testo perda una certa stabilità per acquisire nella nostra mente una sorta dinamicità formale e una leggerezza semantica; poi i testi che si scrivono assomigliano sempre di più a delle cover, a dei remix continui di citazioni e allusioni già sentite da qualche parte o gestite tramite la rete informatica di google. E si potrebbe continuare.
La riflessione sulla natura dell’arte digitale o sulla qualità estetica dell’elaborazione attraverso strumenti digitali si sposta quindi continuamente tra ideazione, progetto, produzione, analisi di quella produzione, significati nella ricezione di quella produzione, regole e metamessaggi di produzione di quei significati, metafore più ampie come allusioni a concezioni che provengono da quei lavori.
Siamo perciò interessati alla digitalità in sé: la nostra è una cosciente, dichiarata e sperimentata ricerca sulla simbiosi concettuale fra la tecnica impiegata e il riflesso psicologico, sociale e linguistico che il Digital Lifestyle sta avendo (e ha già avuto) nella vita quotidiana.
Si tratta di chiedersi se questi livelli di lettura e produzione sono esplicitabili quando ci si confronta con i prodotti della cultura digitale; ancora più interessante è verificare se questa esplicitazione comporti il passaggio da una cultura prodotta da un linguaggio formale specifico a qualcosa di più complesso, di maggiormente in tensione verso altri ambiti e mondi, come accade in genere per un lavoro artistico.
Un osservatore coglie la novità dei lavori di Marotta & Russo se abitudinariamente viaggia in rete e apre le finestre delle pagine web, se utilizza di frequente il tasto play del lettore dvd, se si confronta con gli indicatori luminosi che rimandano ai concetti di accensione e spegnimento, se ha stabilito legami empatici con gli spazi virtuali: chi abita questo immaginario con la mente, con l’occhio, con la mano/corpo diviene abitante degli spazi dei due artisti. Ma tutto questo è solo un inizio per un’indagine più approfondita
dei contenuti, delle prospettive concettuali e delle implicazioni umanistiche del processo tecnologico [...]. In altre parole, ci impegna lo sforzo di problematizzare criticamente le ricadute, intime e sociali, quotidiane ed epocali di quanto ci sta accadendo
Infatti gli elementi visivi che identificano e ci relazionano al mondo dell’Information Technology sono utilizzati per composizioni formali che un osservatore, con una intuizione per così dire “da lontano”, identifica vagamente come mappe, strade, cantieri, tracciati di metropolitane, edifici mitici, ma anche colossali e primitivi calcolatori. Queste composizioni rigorosamente formalizzate con filologiche citazioni dell’ archeologia della cultura informatica si trasformano in richiami agli archetipi della storia e della letteratura del passato, ma anche alle forme delle città delle abitazioni del movimento moderno, come un prospetto di Gerrit Thomas Rietveld.
Il concetto di funzionalità è da subito ridiscusso ma anche ricollocato perché se sembra prevalere la dimensione ludica, la città improbabile, lo still di un video game, i nuovi abitanti possono essere solo degli avatar progettati e programmati per un nuovo luogo da esperire.
Quindi se osserviamo e analizziamo queste rappresentazioni anche come strumenti e come dispositivi, non solo come composizioni astratte e statiche, esse attivano una fruizione dinamica, un movimento all’interno di maglie ortogonali che indicano un movimento prestabilito, orientato secondo una certa idea di funzionalità. Si tratta di una regolamentazione estetica che implica l’informazione del software: una “infoestetica”.
Con queste intersezioni e questi rimandi il lavoro sintonizzato sul presente diviene curiosamente ambiguo, misteriosamente antico che allude ad un nuovo umano.
Ci sforziamo di evidenziare uno scarto, un nuovo punto di vista, in grado di eliminare una frattura percepita (ideologica e non reale) fra il sapere tecnologico e quello umanistico, il dato razionale e quello spirituale. Le tecnologie legate all'ipermedialità, per le diverse competenze e psicologie che richiedono nel loro impiego professionale, ma anche nel quotidiano di ciascuno, spingono a vedere come unitari questi due macro-ambiti. Siamo, insomma, alle soglie di un neoumanesimo digitale.
La riflessione sui riferimenti culturali di questa nuova progettualità e funzionalità che vuole superare il carattere tecnico della tecnologia conduce alla lezione concettuale di Marcel Duchamp, alle forme dell’umano alienato e straniato nelle macchine di Francis Picabia, all’appropriazione di elementi di una cultura visiva ormai di massa. Si tratta di una sorta di pratica “digipop”, che però svuota le pagine web di testi, semplifica minimalisticamente le icone, diventa disposizione di frame, relazione tra segnali/dispositivi, composizioni cromatiche accese come in un monitor.
Pertanto, estendendo e portando alle estreme conseguenze questo concetto in un ambito di ricerca artistica contemporanea, per noi l'output rappresenta la risultante di un atto cosciente di ricomposizione culturale ed estetica intorno ad una serie di necessità storicamente date. Insomma, un processo teso alla propria continua ridefinizione, espresso nello sforzo di “bucare”, in maniera coerente e densa, il “rumore” indistinto contemporaneo, frutto dell’eccesso “disordinato” di comunicazione, artistica e non.
Già chiaramente caratterizzato da una nuova estetica, fortemente sintetica e marcatamente progettuale, "ottimizzata”
Una progettualità trasparente a se stessa, una composizione concettuale che raffreddando l’emotività nell’ortogonalità della griglia ricerca un’essenza classica. Il lavoro di Marotta & Russo si fonda sull’estetica della griglia celebrando le possibilità compositive del form, primo elemento percettivo e organizzativo del vedere contemporaneo. Come architetti o compositori Marotta & Russo sembrano consapevoli che caratteristica della costruzione è la dispositio della retorica classica, e poi la chiarezza della linea di contorno che delimita la forma e ritmo.
La sensazione che sembra emergere dai lavori è che nel mondo dell’infoestetica si possa riconfermare una teoria classica come risultato del modo in cui la nostra mente pensa e organizza i dati percettivi e sensibili.
Si tratta di una affermazione ancora problematica e rientra nella questione di “ciò che è vecchio e ciò che è nuovo”
In altre parole, dietro alle cosiddette "Nuove Tecnologie" c'è una storia concettuale, culturale e antropologica quasi trentennale. Prenderne atto è il primo passo per ragionarci sopra criticamente, abbandonando l'enfasi nuovista (e acritica, appunto) che investe i "vecchi" media (che fanno tuttora "senso comune" e vox dei) rispetto ai "nuovi" media...
I corpi progettati in 3D possono riproporre questioni antiche si possono scomporre e muovere aprirsi e chiudersi, interrogare e alludere a temi e significati diversi dalla loro natura cyborg e riconnettersi ad un umano universale; ma ci si deve chiedere come rinnovare questi interrogativi, come aggiornare le forme di possibili risposte.
La sfida di Marotta & Russo è quella di evitare un decorativismo di derivazione optical art, uno slittamento sulla costruzione solo grafica di corpi in 3D o la riproposta di soluzioni compositive già viste.
Ecco che con questo design o styling solo come travestimento, con spirito ludico e ironico si può sostenere una nuova proposta del moderno. Il moderno si pone anche come frattura tra io e mondo e quindi ci si dovrebbe chiedere in che modo proporre questa lacerazione nel confronto con la cultura informatica. Un altro tema potrebbe riguardare anche la questione dell’alienazione, dato che quelle griglie indicano anche stereotipi mass mediali, strutture logiche imposte, elementi grafici e geometrici ossessivi, ripetitivi. Quindi una pratica artistica potrebbe includere una critica all’ossessione iconica, senza cedere ad una eccessiva fiducia nella capacità progettuale di costruzione di un nuovo mondo formalizzato.
Il rischio è rimanere ancorati ad una visione troppo classica nella ricerca di una dimensione estetica più autentica e completa; la grammatica del digitale è la base ma le concezioni del mondo e del presente sono sfuggenti e a volte si intersecano, altre volte sembrano disgiungersi, ma non si devono far scappare.
La tensione va rischiata e giocata fino in fondo, ma di questo i due artisti sembrano assolutamente consapevoli.
Le nostre ricerche partono dai concetti di conoscenza di sé e del proprio contesto storico, con l’obiettivo di aumentare sempre di più la capacità progettuale di costruire un linguaggio concettuale rigoroso, tramite l’esperienza di attraversamento estremo del proprio tempo storico definito (“giocare tutti i giochi”, per dirla con Rimbaud).
Così, forse, l’arte di questo periodo continuerà a dirsi digitale ma praticata ed esperita come arte.
*Le citazioni provengono dal sito degli artisti www.avatarproject.it