Digital Life Style
Luca Beatrice
Non è un luogo comune e neanche una boutade l’affermazione per cui la domanda di “creatività” è sentita oggi come condizione urgente non tanto in quel mondo che da sempre si nutre di tali argomenti (l’arte, per esempio, ma in generale qualsiasi ambito estetico), quanto piuttosto nell’universo del pragmatismo tecno-scientifico, economico, politico, manageriale.
Un tempo, neanche troppo lontano, si considerava il mondo della creatività come la domenica della vita, una specie di hobby, una stranezza rispetto al mondo del lavoro e della produzione. Soprattutto per i nati nei decenni ’60 e ’70 la scelta di intraprendere studi scientifici significava puntare dritti all’inserimento nella vita vera – infatti esplodevano le facoltà di ingegneria e informatica – mentre decidere per la strada umanistica – lettere e filosofia, in particolare – sembrava ai più una incosciente bizzarria, tanto che ai nostri genitori si materializzarono come una piccola tragedia quei figli tentati dalla formula idealismo epicureo - praticità zero.
E se invece avessimo avuto ragione noi, inconsapevoli discepoli di Guy Debord che già nel 1968, scrivendo “La società dello spettacolo”, preconizzava con l’addio al XX secolo la fine della grande industria e la sua sostituzione con un’economia leggera e terziaria, fondata sulla creatività e appunto sulla spettacolarizzazione?
Perché oggi, e non è affatto una stranezza, le imprese multinazionali, i centri di ricerca, le università, le think tank strategiche, gli avamposti sperimentali delle società più avanzate sostengono l’importanza della creatività e, proprio per questa ragione, inseguono la nuova figura del “manager filosofo”, abituato per natura a confrontarsi con problemi non standardizzati offrendo soluzioni imprevedibili, svincolato da schemi troppo rigidi e griglie preordinate, capace di relazionarsi attivamente con gli altri attraverso le arti della dialettica e dell’invenzione.
Uno dei bestseller delle ultime stagioni, “L’ascesa della nuova classe creativa” di Richard Florida, ha contribuito al radicarsi di questa inedita mentalità, utile soprattutto a svincolare l’immagine del lavoro “tecnico” dal meccanicismo e dall’alienazione e, per contro, a inserire nel dibattito economico termini fino ad allora solamente appannaggio dell’umanesimo. Punto chiave è quella filosofia della wellness, ovvero il concetto per cui il piacere del vivere e del tempo libero possono assurgere al ruolo di nuova economia del 2000 in una società che, in rapida trasformazione, finalmente percepisce come più importante il movimento di cento topolini invece che quello (pachidermico, appunto) di un elefante.
Appurato ciò, proviamo a percorrere il movimento a ritroso e chiederci: quanto del cosiddetto universo pragmatico oggi è entrato a far parte del dibattito estetico contemporaneo? È forse visibile una linea di tendenza inversa, ovvero esistono nell’arte immagini che altrettanto evidentemente potrebbero appartenere ad altri contesti? E se così fosse, che cosa le distinguerebbe dalla mera progettualità tecno-scientifica sempre finalizzata a un qualche risultato mentre, di contro, l’arte non può che essere fine a se stessa?
Se non fossimo pienamente immersi in questo dibattito, che ripeto è uno degli argomenti più interessanti nel primo scorcio di XXI secolo, forse un lavoro come quello di Marotta & Russo risulterebbe difficilmente inseribile nel contesto artistico. Intendiamoci, prima di loro c’è stato sicuramente chi ha tentato di stabilire connessioni tra questi due universi in apparenza incompatibili, ma onestamente senza varcare quella che definirei come “la duplice soglia”. Fin dai primi anni ’90 esisteva una tendenza per così dire “parascientifica” che, pur muovendosi all’interno del contesto dell’arte, utilizzava strumenti e linguaggi “altri”, ad esempio la statistica, impedendo allo spettatore un’immediata contestualizzazione (dove mi trovo? era la domanda più ricorrente). In questo tipo di esperienze risultava volutamente assente, o quantomeno ben mimetizzata, la componente estetica e infatti molti lavori non si spingevano oltre lo stadio progettuale. Pur in veste tecnologica non si andava troppo in là della vecchia concezione del ready made. Per contro un gruppo anche più numeroso di artisti riteneva fosse sufficiente utilizzare tutti lo stesso strumento digitale per dar vita a un linguaggio dalle comuni prerogative. Ma i risultati sono apparsi evidentemente discutibili, soprattutto quando il mezzo finisce per risultare più importante del risultato.
Marotta & Russo si trovano a percorrere invece un tragitto piuttosto originale, che consiste nello studiare il progetto con ferreo rigore cibernetico e poi restituircelo in forme gradevolmente estetiche. Stefano Marotta (1971) indaga le possibilità espressive e visive dei nuovi media ai fini di ipotizzare una sorta di Digital Lifestyle contemporaneo, mentre Roberto Russo (1969) inserisce nella discussione categorie psicologiche, quindi con un approccio prettamente umanistico. Le loro prime esperienze di lavoro a quattro mani risalgono al 2000, ma la formazione avviene negli anni ’90, epoca in cui cominciavano a risultare visibili, almeno in occidente, gli effetti delle trasformazioni socio-culturali in seguito all’introduzione delle nuove tecnologie della comunicazione.
In un acuto articolo pubblicato su “Rolling Stone” lo scorso luglio dedicato a Douglas Coupland, Matteo Bittanti nota come l’autore di “Generazione X”“sta alla narrativa come Marshall McLuhan alla saggistica. Il primo usa il romanzo per costruire teorie sociologiche. Il secondo sforna aneddoti in quantità industriali mascherandoli come trattati accademici. Entrambi utilizzano aforismi, slogan e formule, a metà tra il manifesto futurista e la lista della spesa. Entrambi prediligono stili grafici arditi. Entrambi sono canadesi (questo forse non è così importante, ndr)”. Coupland, di cui sta per uscire il nuovo libro “Jpod” (autodefinito “il romanzo della Xbox generation”, è certamente uno degli scrittori più importanti degli anni ’90, ne convengono anche Marotta & Russo, e il suo “Microservi” (1995) il “romanzo chiave della culture corporale high-tech della West Coast”. I suoi lavori sono carichi, oltre che di storie e di idee, di neologismi, come la definizione di “oscurismo” che calza perfettamente alle opere di Marotta & Russo: “l’abitudine di scandire i momenti della vita quotidiana con riferimenti oscuri per chiunque – per esempio film dimenticati, divi della televisione scomparsi da tempo, nazioni scomparse ecc… – come mezzo subliminale per sfoggiare la propria erudizione e al tempo stesso il proprio desiderio di distacco dalla cultura di massa”.
In fondo il duo friulano tratta la tecnologia esattamente con questa non-ideologia dell’oscurismo (se dovessimo pensare a un equivalente in campo musicale funzionerebbe bene il caso dell’Indietronica dove l’artificiosità del suono contemporaneo fa il bagno nello spirito pionieristico degli anni ’60-’70) che in un certo senso non nasconde la voglia di un recupero modernista, magari superato nella visione dell’arte e della cultura ma assolutamente attuale nel campo tecno-scientifico, visto che ogni innovazione rende obsoleto tutto il panorama precedente. A Marotta & Russo affascina la scommessa di “raffigurare” concetti legati all’immaginario info-cibernetico e alle icone di riferimento, dotati anch’essi di un design e di uno styling precisi. Secondo la loro poetica, l’archeo-tecnologia degli anni ’80-’90 è già un oggetto di culto nei confronti dei quali è necessario mostrare un atteggiamento romantico, così come ci viene suggerito in “Output” (2003), che per loro stessa ammissione si configura come riflessione sull’avvento del PC che inizialmente interessò l’ambito business, per poi estendersi all’universo delle relazioni e degli stili di vita. Lo scarto sta proprio nel fatto che noi visioniamo il lavoro su un vecchio Apple Macintosh SE/30, che nel 1987 risultava un gioiello tecnologico mentre oggi ci fa lo stesso effetto del tenero robot di “Star Wars”.
Nell’ambivalenza risiede il maggior fascino del lavoro di Marotta & Russo, nel fatto che da una parte sembra necessario calarsi nel linguaggio del graphic e web design per catturarne gli aspetti collegati alle trasformazioni socio-culturali (c’è tutto un popolo di geek che potrebbe decodificarne ogni minima sfumatura), ma allo stesso tempo è possibile limitarsi alla sola sfera estetica, ad esempio quella interna ai codici della pittura, dove Stefano & Roberto si muovono con un’eleganza formale non trascurabile e proprio per questo sinceramente appetibile.