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Humanitas

Gianluca Marziani

Marotta & Russo, ObjectKit

Conosco MAROTTA & RUSSO da alcuni anni e seguo AVATAR PROJECT fin dalle sue sorgenti battesimali. Tra le iconografie che mi (auto)producono contenuti sotto forme impattanti, la loro è indubbiamente estrema per varie ragioni. La prima, fondamentale e pericolosa, riguarda l’uso RADICALE del linguaggio elettronico. Il progetto, infatti, risponde ad una coerente tautologia dove il computer è un UNICUM: corpo, organi, cervello e, soprattutto, stadi emozionali dagli sviluppi capillari. Concentrarsi soltanto sui software, lo sappiamo, diventa rischioso quando la dinamica contestuale si rivolge al quadro, al sistema artistico, ai contenuti etici che l’immagine produce nel meccanismo socioculturale. La pericolosità di cui parlo è insita nella scelta tecnologica ma anche nella consapevolezza linguistica del duo. Dipende da varie modalità, tutt’altro che ovvie, evitare lo scivolamento verso formule immature. Personalmente, così come valuto l’intuito creativo nel legame tra necessità espressiva e mezzo adeguato, non ho mai dubitato della qualità filosofica di “Avatar Project”, né della complessità di ogni singola immagine. I cicli finora prodotti mantengono l’autonomia concentrica del focus diretto (solo digitale, solo certi elementi, solo determinate strategie) ma anche il tramandarsi errabondo di memorie comuni e forza umanistica. Un transfert di forme e significati che scorre lungo i cicli, fuori da certezze rigide ma con la fermezza del proprio focus linguistico. La nostra analisi inizia da qui, dopo l’ultimo ciclo e prima degli esordi: quando il pensiero sarà/è/era l’elemento gravitazionale attorno a cui ogni immagine ruoterà/ruota/ruotava.

La radicalità del duo, in fondo, si rinforza nell’univocità elettronica, nell’inderogabile virtualismo figurativo che mescola bidimensione complessa e apparato digitale. Non usare elementi veritieri in forma diretta significa, al dunque, agire sulla PLAUSIBILITA’ REALISTICA. L’immagine non si piega al surrogato di imitazioni o simulazioni; al contrario, inverte il nostro legame col quadro e offre una figurazione autoriferita, estendibile alle leggi del proprio status senza che il mondo esterno intervenga nella codifica iconica. Vedo qui la seconda ragione del radicalismo di Marotta & Russo, soprattutto per la difficoltà odierna di radicarsi in un sistema dove l’affiliazione globale paga più dell’autonomia estrema.

La COSTRUZIONE DI UN MONDO è la terza ragione che certifica la radicalità del modello espressivo. Attraverso lo sguardo scoviamo un luogo della vita con le sue complessità accessorie. Atmosfere, edifici, oggetti ed altri elementi per connotare i personaggi che in questo mondo vivono, pensano, si emozionano. Lo spazio inventato ha usi riconoscibili, sistemi autoriferiti in cui la storia prende forma e diviene vera come il mondo tangibile, paradossalmente più reale poiché sotto pieno controllo narrativo. La realtà digitale si sovrappone alla nostra, imprime i suoi segnali sopra i segni della civiltà a cui apparteniamo. Vita su vita, forma su forma, input su input, output su output: a conferma che la cultura digitale plasma il nostro quotidiano, ormai in perfetta entropia con le dinamiche giornaliere della vita sociale.

Il REALISMO CORPOREO è un altro dato significativo di “Avatar Project”. Una riconoscibilità fisiognomica che non intende replicare il reale ma creare un format parallelo dalla vita indipendente. I corpi vengono scandagliati, radiografati nei loro apparati interiori, analizzati con precisione scientificamente digitale. Gli influssi esterni agiscono sulla forma organica, organizzano gli assetti del sistema osseo, nervoso, muscolare, circolatorio. I brandelli di mondo tecnologico elaborano un corpo virtuale ma non virtuoso, plausibile ed attrezzato. Non si tratta di mutazioni cyborg o di innesti prostetici. Al contrario, le figure mutano in perfetta empatia col mondo a cui appartengono. Fanno parte del contesto esterno, ne sono il risultato e la conseguenza, finchè loro stesse condizionano il mondo da cui provengono. Nei primi lavori il corpo vibrava nel campo lungo delle panoramiche, si muoveva in uno spazio delineato, tra oggetti ed altri feticci significanti. Col tempo l’obbiettivo ha ristretto le ottiche, focalizzato dettagli con maniacale costruzione tematica. I cicli vanno gradualmente sul frammento, connotando la totalità nel micromondo che si distende sui confini del quadro.

Osservando i lavori finora prodotti, emerge un primo ribaltamento che riguarda le APPARENZE delle immagini. Vediamo qualcosa ma in realtà stiamo dialogando con sottotesti complessi da sviscerare nel tempo e nello spazio. Il computer, strumento linguistico prescelto, riesce a farlo tramite la sua doppia natura: quella di software elaborativo e di universo tautologico da vivisezionare attraverso un vero neoumanesimo digitale. L’apparenza della forma ci mostra così i luoghi della partenogenesi informatica, un mondo pulsante che non esiste nella realtà tridimensionale ma che in realtà ci riguarda come visione parallela. Ogni elemento contiene il proprio motore grammaticale (un software messo a nudo, un’home page che diviene architettura…) ma anche il fine dei singoli strumenti, gli eccessi funzionali, le tensioni estetiche, l’applicabilità ipotetica nel nostro stile di vita.

Nel resoconto delle apparenze sensibili, un altro carattere riguarda il legame invertito tra MICRO e MACRO. Comprendiamo che i microelementi informatici si ingrandiscono per evocare mondi speculari al reale. Anche qui le apparenze nascono con precisi rimandi tra causa ed effetto: ed ecco la tensione morale che normalizza gli estremi tecnologici e ribalta il consueto legame con l’elettronica. Quanto ci sembrava astratto e graficamente isolato si tramuta in un ritorno alle origini umanistiche dell’elaborazione. Rivediamo elementi d’uso comune sul web che ora sottolineano la propria provenienza intellettuale, il principio fondante con cui la mente umana (onore agli ideatori dei software, vero concentrato di cultura, antropologia, psicanalisi, sociologia e molto altro) ha proiettato i meccanismi dialettici del cervello dentro formule sintetiche dagli utilizzi pratici e dai risultati veloci.

Il secondo ribaltamento riguarda l’AUTONOMIA del progetto davanti ai debiti storici che chiedono spazio. L’opera compie un salto netto rispetto ai legami figurativi che il duo sente, metabolizza e digerisce col dono della dissolvenza invisibile. La loro visione rimane europea, contaminata da matrici alte che però non capti più, rese invisibili da un’attitudine colta ma mai dogmatica, semplice senza il semplicismo della citazione ovvia. Il Dna culturale scompare in apparenza per persistere dietro le immagini, connotando una figurazione italiana che mantiene valenze mediterranee ed europee.

Ma veniamo al terzo ribaltamento che riguarda la COMUNICAZIONE col suo carico di catarsi epocali. Il dato significativo indica la scomparsa di una precisa gerarchia tra testi e contesti, individui e ambienti collettivi, sviluppi di classe e cultura. Marotta & Russo ci ricordano che l’elettronica non è soltanto un mondo funzionale, astratto nel suo tecnicismo interno, destinato al solo miglioramento delle professioni. La CULTURA DIGITALE rispecchia le istanze di una società democratica, ciclicamente aperta, contaminata nei suoi livelli plasmabili. Si aggiunga che proprio la cultura digitale incrocia Oriente ed Occidente, primo e terzo mondo in un intreccio di diagonali nascoste, assi e traverse virtuali dove gli scambi e le consapevolezze assottigliano le distanze. Comunicazione e cultura digitale significano oggi CULTURA DELL’UMANITA’, una sorta di culto del normale dove l’elettronica diviene percepibile, fisicamente protagonista.

“Avatar Project” indica la direzione dei mezzi digitali nel loro incrocio MASSIMALE e RIDUZIONISTA. Da un lato la dilatazione del mezzo, lo sfruttamento aperto della sua grammatica, fino ad una riflessione sullo strumento con gli attrezzi dello strumento stesso. Dall’altro la sottrazione di qualsiasi virtuosismo, l’uso univoco del mezzo per una finalità plausibile e giustificata. Marotta & Russo non si lasciano travolgere dalle competenze tecniche, né stuzzicano la furbizia con effetti speciali ma poco specialistici. Loro dilatano lo strumento per un fine che addiziona i ribaltamenti finora descritti. Massimalismo e sintesi rispecchiano la cultura del presente, i sanabili contrasti etici tra individui, la massa elastica della società civile.

Al centro di questo lungo viaggio torna sempre l’UOMO con la sua energia rigeneratrice e l’immenso potenziale dell’intelligenza gestita. Non a caso i quadri cercano una fissità astorica che ambisce alla distensione spaziale, alle aperture interpretative, fino ad una globale astrazione verso archetipi pittorici e volumetrie classiche. “Avatar Project” è la sintesi virtuale della nostra epicità interiore, della lotta incoerente che intraprendiamo tra passato e futuro. Dentro le opere ci muoviamo tutti noi, umani cervellotici e sentimentalmente vivi. Imprimiamo lo sguardo su forme dai colori non casuali, sopra fondali in graduale rarefazione, sui corpi che sono parte della storia iconografica. Le stesse inquadrature, denotando abilità prospettiche e angolazioni di cultura filmica, ci catapultano nelle onde del novecento avanguardistico. Che i rimandi siano visibili o meno non conta più: la metabolizzazione neoumanistica ha fatto i suoi giochi dentro un progetto unico, classicamente futuribile, intenso come il passato che rinasce con gli strumenti del presente.